Dal 1° luglio 2018 lo stipendio, qualsiasi sia l’importo, si può riscuotere solo in banca o comunque con modalità che escludano l’uso dei contanti (ad esempio con assegno). Chi vorrà prendere i soldi della busta paga, dovrà quindi rivolgersi prima allo sportello. Ma quali effetti comporterà questa riforma su chi ha debiti, con privati o con l’Agenzia delle Entrate Riscossione, e teme un pignoramento del conto corrente?

Sembra di rivedere quel terremoto del 2011 quando il Governo Monti, per evitare l’evasione fiscale, impose all’Inps di pagare le pensioni superiori a mille euro in banca e non più alla posta. L’effetto fu quello di cancellare, di fatto, il pignoramento presso terzi davanti all’ente di previdenza. Questo perché, dovendo i soldi confluire per forza in un conto corrente ed essendo l’Agente della Riscossione a conoscenza dell’istituto di credito ove il contribuente tiene i risparmi (non dimentichiamo che è pur sempre una “dépendance” dell’Agenzia delle Entrate), finiva per preferire all’Inps la banca, dove il prelievo poteva essere “totale” e non solo di un quinto (ne avevamo parlato all’epoca in una clamorosa denuncia: Abolito di fatto il limite del quinto pignorabile).

Succederà la stessa cosa con gli stipendi. Qualsiasi creditore – non solo l’Agente della Riscossione – andrà direttamente a bloccare il conto corrente, non accontentandosi più di quel 20% che può ottenere dal datore di lavoro. Ma, nel frattempo, le norme sono cambiate e la situazione non è più come sette anni fa. Vediamo dunque che fine faranno i pignoramenti ora che lo stipendio non potrà mai più essere pagato in contanti.

Com’è oggi il pignoramento dello stipendio?

Oggi il pignoramento dello stipendio si può fare in tre modi.

Il primo modo per pignorare lo stipendio è quello di rivolgersi direttamente al datore di lavoro e chiedergli (tramite l’ufficiale giudiziario) di bloccare un quinto del netto di ogni busta paga; ciò in attesa che il giudice, in una successiva udienza (alla quale il dipendente viene invitato a partecipare), autorizzi l’azienda a versare le somme così accantonate sul conto del creditore. In questo caso, su ogni mensilità viene detratto il 20% in favore del creditore stesso, fino a quando il debito non è stato estinto o finché non cessa il rapporto di lavoro.

Il secondo modo per pignorare lo stipendio è di agire sul conto corrente dove il lavoratore ha depositato la retribuzione. Qui però le regole sono diverse. Quando viene notificato il pignoramento è verosimile che sul conto vi siano dei risparmi, frutto di precedenti stipendi non spesi integralmente. In tal caso la legge consente il pignoramento solo per la parte che supera il triplo dell’assegno sociale ossia – per il 2018 – 453 euro x3, pari a 1359 euro. Su un conto con 2mila euro in deposito si può pignorare 141 euro (2.000 – 1359). Invece, per quanto riguarda i futuri stipendi che verranno accreditati, ne viene bloccato solo un quinto (il 20%) per essere dato, di volta in volta, al creditore. Prima di tutto ciò, comunque, c’è bisogno anche in questo caso di un’udienza del giudice che autorizzi lo storno delle somme in favore del creditore.

Il terzo modo per pignorare lo stipendio è una procedura speciale che viene consentita solo all’Agenzia Entrate Riscossione. In pratica, tutto passa per un ordine diretto al datore di lavoro o alla banca di versare le somme pignorate all’Esattore, senza passare dal giudice. Al debitore vengono comunque dati 60 giorni per saldare il conto. Non c’è quindi un’udienza in tribunale.

Il pignoramento però è di un decimo (il 10%) se lo stipendio non supera 2.500 euro; è di un settimo se lo stipendio si colloca tra 2.501 e 5.000 euro; è di un quinto se lo stipendio è superiore a 5.001 euro.

Cosa cambia con il pagamento in banca dello stipendio?

La differenza tra agire con un pignoramento al datore di lavoro e uno in banca è chiara. Nel primo caso si prende solo un quinto dei futuri stipendi. Nel secondo caso, invece, c’è la speranza di prendere qualcosa in più: se il debitore ha infatti un deposito che supera 1.359 euro (l’importo viene aggiornato di anno in anno), il creditore si prende l’eccedenza oltre al 20% delle successive buste paga. Di fronte a una situazione del genere, il dipendente non ha più la possibilità di sperare nei contanti per sottrarsi al pignoramento; al contrario, dovrà soccombere difronte al fatto che il creditore potrebbe andare a bloccare i suoi risparmi nel momento stesso in cui gli viene accreditata la busta paga se questa porta la soglia del deposito oltre il tetto di pignorabilità. Che significa? Che se una persona prende uno stipendio di 1.200 euro e lo lascia in banca, nel momento in cui gli arriva il successivo accredito rischia un pignoramento della provvista di circa 1.041 euro (1.200 x 2 – 1.359).

Questo non significa che non ci saranno più pignoramenti dal datore di lavoro. Essi potranno continuare ad esistere e l’azienda verserà in banca solo la busta paga al netto della trattenuta del pignoramento stesso.

Come si fa a sapere dove il dipendente ha il conto corrente?

Non è una domanda da fare con i moderni sistemi di controllo telematico. Il nuovo codice di procedura civile, così come le norme di contrasto all’evasione, prevedono la possibilità per qualsiasi creditore – pubblico o privato – di affacciarsi all’Anagrafe dei Conti Correnti e sapere dove il debitore ha depositato i propri risparmi. C’è insomma una piena trasparenza e sbaglia chi ritiene che, nascondendo in banca il proprio stipendio, può stare al sicuro. Oggi ancor di più che tali somme andranno direttamente sul conto.

Che fine fanno i pignoramenti già notificati al datore di lavoro?

Vediamo in ultimo che fine fanno i pignoramenti già notificati al datore di lavoro e in corso di esecuzione al passaggio della riforma. In realtà nulla cambia. Il datore di lavoro pagherà – tramite bonifico bancario – solo la somma al netto della trattenuta.

Fonte: https://www.laleggepertutti.it/191005_aumentano-le-somme-pignorabili-sugli-stipendi