Reati tributari: quando c’è la sanzione penale per l’omessa dichiarazione dei redditi o Iva, fraudolenta dichiarazione e dichiarazione infedele. Le operazioni inesistenti.

La parola evasione fiscale porta spesso con sé l’idea di un reato, di un processo penale, del sequestro dei beni e, magari, l’espropriazione della casa. E invece le conseguenze non sono sempre queste. La violazione delle norme tributarie o la semplice morosità non fa sempre scattare il reato ossia il penale; anzi, ciò succede solo in casi rari, quelli relativi alle violazioni più elevate, di solito collegate ad attività imprenditoriali medio o alto livello. È molto difficile che il piccolo contribuente possa essere inquisito in un processo penale di evasione per piccoli inadempimenti; in tali ipotesi l’unico rischio che corre il moroso è la notifica della cartella di pagamento e il pignoramento dei beni. Nessuna conseguenza però sotto il profilo della fedina penale. In questo articolo ci occuperemo proprio di comprendere qual’è questa linea di confine e soprattutto, in materia di fiscoquando scatta il penale.

Indice

  • 1 I reati tributari
  • 2 Emissione di fatture false
  • 3 Omessa presentazione della dichiarazione dei redditi
  • 4 Dichiarazione fraudolenta
  • 5 Dichiarazione infedele
  • 6 Omesso versamento IVA
  • 7 Omessa presentazione della dichiarazione IVA
  • 8 Omesso versamento ritenute certificate
  • 9 Cosa succede in tutti gli altri casi?

I reati tributari

Quando si parla di evasione fiscale non si ha a che fare con un unico reato. Esistono tanti illeciti tributari a seconda del tipo di imposta e, in base a ciascuna di esse, vengono fissate regole differenti. Per tutte però vale lo stesso principio: il penale scatta solo dopo una certa soglia di evasione. Ed è proprio nel determinare tale soglia che si distinguono le varie discipline del settore. Ad esempio, nel caso di mancato pagamento dell’Irpef (l’imposta sui redditi) la soglia oltre la quale scatta il penale è diversa rispetto all’Iva. Inoltre esistono imposte come l’Irap la cui evasione non comporta mai, a prescindere dall’entità dell’evasione, il reato. Ciò avviene di solito con le imposte indirette. Ma procediamo con ordine e vediamo, quando scatta il penale col fisco.

Emissione di fatture false

Farsi rilasciare fatture false al solo scopo di aumentare i costi e detrarli dalle tasse è un illecito tributario. Si tratte della cosiddette operazioni inesistenti. Questo è l’unico caso in cui non sono previste soglie per il penale: il reato scatta sempre, in tutti i casi cioè in cui il contribuente si fa emettere una fattura per una prestazione che non è mai stata resa al solo scopo di pagare meno imposte. Basta quindi anche una fattura di un solo euro. Ad esempio, immagina di avere un amico che fa il ristoratore e che, su tua richiesta, emette una fattura per cena di lavoro (cena che non hai mai fatto né mai pagato) al fine di fartela scaricare dalle tasse. In questo caso, stai commettendo un reato e sei passibile di un procedimento penale. La pena per il reato di emissione di fatture false è prevista la pena:

  • da sei mesi a due anni di reclusione per fatture fino a 154.937 euro;
  • da 18 mesi a sei anni per fatture di importo superiore a 154,937 euro.

Omessa presentazione della dichiarazione dei redditi

Se una persona non presenta la dichiarazione dei redditi commette un illecito tributario. E ciò anche se si è dimenticato, se è stato male o se la colpa è del suo commercialista che si è dimenticato (a meno che non si proceda a denunciarlo: in tal caso si potrà scaricare su di lui la responsabilità).

Il reato di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi scatta solo se l’imposta evasa è superiore a 50mila euro (prima la soglia era di 30mila euro). La reclusione è da 1 anno e 6 mesi a 4 anni.

Dichiarazione fraudolenta

Il penale scatta quando vi è l’indicazione in dichiarazione di elementi attivi per ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi inesistenti quando congiuntamente:

  • l’imposta evasa è maggiore a 30.000 euro;
  • il reddito evaso (anche tramite indicazione di elementi passivi fittizi) è  superiore al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque superiore a 1.500.000 euro, oppure qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta è superiore al 5% dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a 3.000.000 di euro.

La pena è la reclusione da 18 mesi a 6 anni.

Per l’indicazione in dichiarazione di elementi passivi fittizi mediante fatture o altri documenti per operazioni inesistenti il reato scatta sempre a prescindere dall’evasione.

Dichiarazione infedele

L’ipotesi più tipica, se vogliamo, dell’evasione fiscale è quella della dichiarazione infedele. Si ha quando il contribuente indica, nella propria dichiarazione dei redditi inviata all’Agenzia delle Entrate, dei dati inesatti o parziali al fine di pagare meno tasse. Si pensi al caso di una persona che percepisce uno stipendio in nero o che vende dei beni e non lo dice al fisco. In questo caso, il reato scatta se sussistono le due seguenti condizioni:

  • imposta evasa superiore a 150mila euro;
  • reddito evaso (anche tramite indicazione di elementi passivi fittizi) superiore al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque maggiore di 1.500.000 euro, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta è superiore 5% dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque ad 3.000.000 di euro.

Per sanare l’infedele dichiarazione il ravvedimento si effettua con le seguenti modalità:

  • presentazione di dichiarazione integrativa dalla quale risulti la maggiore imposta dovuta o il minor credito spettante;
  • versamento delle somme dovute a titolo di imposta, di interessi legali maturati dal giorno della violazione a quello della regolarizzazione e della sanzione ridotta.

La sanzione dovuta è differente a seconda che la dichiarazione integrativa sia presentata entro 90 giorni dalla scadenza del termine per la dichiarazione originaria o successivamente e se l’errore sia rilevabile in sede di controllo automatizzato o meno.

Omesso versamento IVA

Il penale scatta quando il contribuente non versa il debito IVA (superiore a 250.000 euro per periodo d’imposta) risultante dalla dichiarazione relativa uno specifico anno entro il 27 dicembre dell’anno successivo.

Il reato presuppone che il debito emerga dalla dichiarazione e non si configura quindi in caso di debito derivante da rettifica della dichiarazione o in caso di omessa dichiarazione.

Si evita la condanna penale se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il contribuente estingue il debito comprese sanzioni amministrative e interessi, mediante integrale pagamento, anche a seguito di conciliazione, adesione o ravvedimento operoso.

Omessa presentazione della dichiarazione IVA

Il reato di omessa presentazione della dichiarazione Iva scatta se l’imposta evasa è superiore a 50mila euro. Le sanzioni sono le stesse previste per le imposte sui redditi [1].

Omesso versamento ritenute certificate

Il penale scatta quando il sostituto (il datore di lavoro) non versa, entro il termine previsto per la dichiarazione annuale dei sostituti (mod. 770), ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti per un ammontare superiore a 150.000 euro per periodo d’imposta.

Fino al 22 ottobre 2015, il reato si configurava solo in relazione alle ritenute risultanti dalle certificazioni.

Risponde del reato l’amministratore in carica al momento della scadenza della presentazione della dichiarazione del sostituto d’imposta.

Cosa succede in tutti gli altri casi?

In tutti i casi in cui non scatta il penale, il contribuente rischia solo sanzioni amministrative, ossia aggravi dell’imposta che sarebbe stato obbligatorio versare. La conseguenza è però solo sul piano patrimoniale: l’importo viene iscritto a ruolo, viene notificata la cartella di pagamento e l’Agenzia entrate Riscossione procede al pignoramento dei beni. Ricordiamo che la prima casa è pignorabile solo se accatastata in A/8 e A/9 o quando, insieme ad essa, il contribuente è proprietario di altri immobili o quote di altri immobili. Ma anche in questi casi è necessario il rispetto di una condizione: il debito deve essere superiore a 120mila euro. Non esistono invece limiti di reddito per i pignoramenti di altro tipo (conto corrente, pensione, stipendio, mobili).

note

[1] Cfr. Cass. sent. n. 15172/18 e n. 15133/18 del 5.04.2018: La nuova fattispecie di reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, come modificata dall’art. 8 d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, che ha elevato a euro 250.000 la soglia di punibilità, ha determinato l’abolizione parziale del reato commesso in epoca antecedente che aveva ad oggetto somme pari o inferiori a detto importo, e in considerazione dell’abrogazione parziale trovano applicazione gli artt. 2, comma 2, c.p. (e non il comma 4 dell’art. 2 c.p.) e 673, comma 1, c.p.p.

Nella sentenza in commento la Suprema Corte rigetta il ricorso della Procura della Repubblica, ritenendo che la modifica della soglia di punibilità abbia comportato la parziale abrogazione della norma incriminatrice, rendendo non più penalmente rilevante le omissioni al di sotto di euro 250.000: secondo il Giudice di legittimità, da ciò consegue che il giudice dell’esecuzione deve revocare la sentenza di condanna, se non sono necessari ulteriori accertamenti.

già in precedenza la Suprema Corte aveva affermato che «la mutata soglia di punibilità dei reati di omesso versamento di ritenute certificate […] e di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto […], al di sotto della quale operano soltanto a misure sanzionatorie di tipo amministrativo, introdotta dal d.lgs. n. 158/2015 rientra […] nell’abrogazione parziale dei due reati, nei quali il mutato giudizio di offensività della condotta omissiva si è tradotto nel restringimento dell’area della loro penale rilevanza, con assegnazione a quella amministrativa delle condotte che si collocano al di sotto della nuova soglia. Configurando la soglia di punibilità un elemento costitutivo di entrambe le fattispecie legali astratte delle suddette disposizioni, è evidente che la sua modifica rende la nuova fattispecie speciale rispetto alla precedente poiché ne restringe l’ambito applicativo, rimanendo l’area della punibilità circoscritta alle sole condotte che si collochino al di sopra della nuova soglia» (così Cass. Pen. n. 10810/18, in CED Cass., non massimata). Con specifico riferimento al reato di omesso versamento di ritenute dovute o certificate ex art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000, il Giudice di legittimità ha statuito che la novella del 2015 ha escluso la rilevanza penale delle condotte sino all’ammontare di euro 150.000, determinando così una abolitio criminis parziale con riferimento alle condotte aventi ad oggetto somme pari o inferiori a detto importo, commesse in epoca antecedente (Cass. Pen. n. 34362/17, in CED Cass., Rv. 270961).

Il valore dei beni fraudolentemente sottratti al pagamento di imposte può essere inferiore a euro 50.000. Nella sentenza n. 15133/18 la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione afferma il seguente principio di diritto: «In tema di reati tributari, il valore dei beni sottratti fraudolentemente al pagamento delle imposte può essere inferiore all’ammontare di euro 50.000 previsto dall’art. 11 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 come elemento costitutivo del reato. L’offensività della condotta va parametrata esclusivamente in base alla sua attitudine a ridurre o eliminare la garanzia patrimoniale, secondo un giudizio ex ante».

SENTENZA

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 13 marzo – 5 aprile 2018, n. 15172
Presidente Savani – Relatore Socci

Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Bari, giudice dell’esecuzione, con provvedimento del 27 aprile 2017 ha revocato la sentenza del Tribunale di Bari n. 1205 del 2014, irrevocabile il 18 ottobre 2014, in relazione all’art. 10 ter, d.lgs. 74/2000, in quanto la somma evasa era inferiore alla attuale soglia di 250.000,00 Euro (come previsto dall’art. 8, d.lgs. 158/2015).
2. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari, ha proposto ricorso per Cassazione, per i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen..
2.1. Violazione di legge, art. 2, cod. pen..
Nel caso di specie non si è verificata un’abolizione del reato, ma un evidente fenomeno di successione di leggi penali nel tempo, con la conseguente applicabilità dell’art. 2, quarto comma, cod. pen..
Il diritto dell’imputato ad essere giudicato in base al trattamento più favorevole, tra quelli succedutesi nel tempo, trova però il limite del giudicato.
Ha chiesto pertanto l’annullamento della decisione impugnata.
2.2. La Procura generale della Suprema Corte di Cassazione, Sostituto Procuratore Generale Gabriele Mazzotta ha chiesto il rigetto del ricorso.
2.3. S.P. ha presentato memoria, nella quale chiede il rigetto del ricorso, per avere il Tribunale correttamente revocato la sentenza di condanna.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è infondato.
In tema di revoca per “abolitio criminis”, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., la delibazione del giudice dell’esecuzione deve riguardare il confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, senza la necessità di ricercare conferme della eventuale continuità tra le stesse facendo ricorso ai criteri valutativi dei beni tutelati e delle modalità di offesa, atteso che detto confronto permette in maniera autonoma di verificare se l’intervento legislativo posteriore assuma carattere demolitorio di un elemento costitutivo del fatto tipico, alterando così radicalmente la figura di reato, ovvero, non incidendo sulla struttura della stessa, consenta la sopravvivenza di un eventuale spazio comune alle suddette fattispecie. (Sez. 1, n. 36079 del 10/05/2016 – dep. 31/08/2016, Costa, Rv. 26800201; vedi anche, nello stesso senso, Sez. 3, n. 5248 del 25/10/2016 – dep. 03/02/2017, Managò, Rv. 26901101).
Con il novellato art. 10 ter del d.lgs. N. 74 del 2000 (come modificato dall’art. 8 del d.lgs. 158 del 2015) il limite per la configurabilità del reato è di Euro 250.000,00: “È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a Euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta”.
La modifica della soglia di punibilità (250.000,00 Euro) ha comportato l’abrogazione, parziale, della norma incriminatrice, rendendo non più reato le omissioni al di sotto di 250.000,0 Euro. Quindi il giudice dell’esecuzione, ex art. 673, primo comma, cod. proc. pen. deve revocare la sentenza di condanna, se non sono necessari ulteriori accertamenti, come nel caso in giudizio (imposta evasa pacificamente inferiore a 250.000,00 Euro).
Del resto questa Corte Suprema di Cassazione già si è pronunciata per la parziale abrogazione del reato, nell’ipotesi di soglia modificata: “La modifica dell’art. 10-bis d.lgs. n. 74 del 2000 ad opera dell’art. 7, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 158 del 2015, che ha escluso la rilevanza penale dell’omesso versamento di ritenute dovute o certificate sino all’ammontare di Euro 150.000,00, ha determinato una abolitio criminis parziale con riferimento alle condotte aventi ad oggetto somme pari o inferiori a detto importo, commesse in epoca antecedente” (Sez. 3, n. 34362 del 11/05/2017 – dep. 13/07/2017, Sbrolla, Rv. 27096101; vedi anche, per l’art. 10 ter, d.lgs. 74/2000, Sez. 3, n. 10810/2018 non massimata: “La mutata soglia di punibilità dei reati di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000) e di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (art. 10-ter, del d.lgs. n. 74 del 2000), al di sotto della quale operano soltanto a misure sanzionatorie di tipo amministrativo, introdotta dal d.lgs. 158/2015 rientra pertanto nell’abrogazione parziale dei due reati, nei quali il mutato giudizio di offensività della condotta omissiva si è tradotto nel restringimento dell’area della loro penale rilevanza, con assegnazione a quella amministrativa delle condotte che si collocano al di sotto della nuova soglia. Configurando la soglia di punibilità un elemento costitutivo di entrambe le fattispecie legali astratte delle suddette disposizioni, è evidente che la sua modifica rende la nuova fattispecie speciale rispetto alla precedente poiché ne restringe l’ambito applicativo, rimanendo l’area della punibilità circoscritta alle sole condotte che si collochino al di sopra della nuova soglia”).
Non v’è dubbio, del resto, che alla data odierna l’omesso versamento di somme inferiori a 250.000,00 Euro non è (più) previsto dalla legge come reato, sicché ove dovesse contestarsi, oggi, l’omesso versamento di somme per importi inferiori alla nuova soglia, la formula di proscioglimento sarebbe “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, che il giudice può adottare senza nemmeno accertare la corrispondenza al vero del fatto così contestato.
Deve pertanto essere affermato il seguente principio di diritto: “La nuova fattispecie di reato di cui all’art. 10 ter, d.lgs. n. 74 del 2000, come modificata dall’art. 8, d.lgs. n. 158 del 2015, che ha elevato a Euro 250.000,00 la soglia di punibilità, ha determinato l’abolizione parziale del reato commesso in epoca antecedente che aveva ad oggetto somme pari o inferiori a detto importo, e in considerazione dell’abrogazione parziale trovano applicazione gli art. 2, comma secondo, cod. pen. (e non il quarto comma dell’art. 2, cod. pen.), e 673, comma primo, cod. proc. pen.”.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso del P.M..


Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 17 novembre 2017 – 5 aprile 2018, n. 15133
Presidente Ramazzi – Relatore Aceto

Ritenuto in fatto

1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo ricorre per l’annullamento dell’ordinanza dell’11/07/2017 del Tribunale del riesame che ha annullato il provvedimento del 06/06/2017 del Giudice per le indagini preliminari di quello stesso tribunale che, sulla ritenuta sussistenza indiziaria del reato di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, aveva ordinato il sequestro preventivo dell’immobile, sito in (omissis) , venduto dalla società “General Work Service S.r.l.” a S.G. , fratello del legale rappresentante, al prezzo concordato di 10.000,00 Euro, inferiore a quello stimato come congruo oscillante tra 33.000,00 e 44.000,00 Euro.
1.1.Con unico motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000.
Deduce, al riguardo, che il Tribunale ha confuso la cd. soglia di punibilità, relativa all’imposta evasa, con il profitto del reato che corrisponde, nel caso di specie, alla differenza tra il valore del bene e l’importo effettivamente corrisposto.

Considerato in diritto

2. Il ricorso è fondato.
3. Con ordinanza del 06/06/2017, il G.i.p. del Tribunale di Palermo, decidendo conformemente alla richiesta del pubblico ministero, aveva ordinato, tra l’altro, il sequestro preventivo di un immobile di proprietà della società “General Work Service S.r.l.” venduta a S.G. , fratello del legale rappresentante della società, ad un prezzo ritenuto inferiore a quello ritenuto congruo. La contestazione provvisoria ipotizza che la vendita era stata effettuata al fine di eludere il pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di interessi o sanzioni amministrative relative a dette imposte per un valore complessivo di duecentomila Euro. Secondo il Tribunale, avuto riguardo alla “ratio” e al bene protetto dalla norma (il corretto funzionamento della procedura esecutiva), poiché “la norma richiede (…) come elemento costitutivo della fattispecie, l’idoneità dell’operazione (simulata o fraudolenta) a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, la concreta pericolosità della condotta dipenderà anche dalla quantità (e dal controvalore) dei beni sui quali si compie l’azione. In sostanza, la cd. soglia (di punibilità) rappresenta l’ammontare del debito tributario che il soggetto agente si propone di non adempiere, tramite la condotta tipizzata, sottraendosi alla procedura esecutiva per una somma (minima) pari a tale entità. In altre parole e per essere ancora più espliciti e chiari, la soglia concreta rappresenta il presumibile danno patito dall’Erario a seguito delle manovre fraudolente del soggetto agente, ossia il valore che potrebbe recuperare, a seguito della procedura di riscossione coattiva, da quei beni che l’agente ha alienato simulatamente, o mediante atti fraudolenti, ha comunque voluto sottrarre alla pretesa fiscale. In definitiva, l’oggettività del reato comporta l’esistenza do un debito tributario che superi i cinquantamila Euro e, contestualmente, che i beni sottratti siano superiori alla stessa cifra e possano compromettere la riscossione per un importo superiore alla cifra medesima, mentre il dolo presuppone l’esistenza (e la rappresentazione) di un debito tributario che superi i cinquantamila Euro e, contestualmente, la consapevolezza che i beni sottratti presumibilmente siano superiori alla stessa cifra e possano compromettere la riscossione per un importo superiore alla cifra medesima”. Ne consegue – conclude il Tribunale – che poiché il valore stimato dell’immobile alienato simulatamente non è superiore a 50.000,00 Euro, “l’operazione in contestazione non può compromettere la riscossione tributaria per un importo superiore o pari alla cifra costituente la soglia indicata dall’art. 11, in esame”.
3.1. Il Procuratore della Repubblica contesta siffatta interpretazione dell’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000 ed eccepisce che, in realtà, il legislatore non ha indicato alcuna soglia per il profitto perseguito dall’autore del reato mediante la condotta tipica, rilevando anche l’inefficacia parziale della procedura di riscossione.
4. Il ricorso è fondato.
5. L’art. 11, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000 recita: “È punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad Euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad Euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni”.
5.1. Come già affermato da questa Corte, “l’intero d.lgs. n. 74 del 2000 codifica condotte ciascuna potenzialmente idonea a ledere, da angolazioni diverse, il medesimo ed unico bene giuridico, individuato, come detto, nel dovere di concorrere alle spese pubbliche (e di garantire, conseguentemente, il flusso di beni necessario a farvi fronte). A tal fine il legislatore ha selezionato le fasi dell’obbligazione tributaria, dalla genesi alla sua esecuzione, ritenute essenziali al suo corretto adempimento individuandole nell’obbligo (strumentale al corretto adempimento dell’obbligazione tributaria) di dichiarare i fatti costitutivi dell’obbligazione e il suo oggetto e di farlo in modo corrispondente al vero, nell’obbligo di adempiere all’obbligazione tributaria nei tempi e modi previsti, nella necessità (strumentale) di documentare fedelmente le operazioni fiscalmente rilevanti che incidono sull’an e sul quantum dell’obbligazione tributaria stessa e nel dovere di conservare tale documentazione, nella necessità di preservare la riscossione del credito erariale da attività volte a depauperare in modo fraudolento la garanzia costituita dal patrimonio del debitore. L’art. 11, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000 si ascrive a quest’ultima fase della vita dell’obbligazione tributaria. Attraverso l’incriminazione della condotta da esso prevista il legislatore ha inteso evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell’Erario (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, Rv. 251077, secondo cui l’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell’obbligato, potendo quindi il reato configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori). L’antecedente storico immediato e diretto della norma in questione è costituito dall’art. 97, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 che, come sostituito dall’art. 15, legge 30 dicembre 1991, n. 413, così recitava: “Il contribuente che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte, interessi, soprattasse e pene pecuniarie dovuti, ha compiuto, dopo che sono iniziati accessi, ispezioni e verifiche o sono stati notificati gli inviti e le richieste previsti dalle singole leggi di imposta ovvero sono stati notificati atti di accertamento o iscrizioni a ruolo, atti fraudolenti sui propri o su altrui beni che hanno reso in tutto o in parte inefficace la relativa esecuzione esattoriale, è punito con la reclusione fino a tre anni. La disposizione non si applica se l’ammontare delle somme non corrisposte non è superiore a lire 10 milioni”. La diversità strutturale delle due fattispecie, sin da subito segnalata da questa Corte (Sez. 3, n. 17071 del 04/04/2006, De Nicolo, Rv. 234322), è evidente: scompare, nella nuova, ogni riferimento alla necessità dell’effettivo avvio di un qualsiasi accertamento fiscale e non è più conseguentemente richiesto che l’azione comprometta effettivamente l’esecuzione esattoriale, essendo sufficiente che sia idonea a renderla inefficace (sulla conseguente natura di reato di pericolo concreto la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata; cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 35853 del 11/05/2016, Calvi, Rv. 267648, che ha affermato che il delitto in questione è reato di pericolo, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare – secondo un giudizio “ex ante” – l’attività recuperatoria della amministrazione finanziaria; nonché, Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2016, Pass, Rv. 266771, con richiami ai numerosi precedenti conformi); fa ingresso, nella fattispecie, la condotta di “alienazione simulata”, che costituisce modalità alternativa al compimento di atti fraudolenti sui propri o altrui beni” (così, in motivazione, Sez. 3, n. 3011 del 05/07/2016, Di Tullio).
5.2. Del resto, sulla natura di reato di pericolo del reato in questione, questa Corte non ha mai nutrito dubbi (oltre Sez. 3, n. 35853 del 2016, cit., cfr. anche Sez. 3, n. 23986 del 05/05/2011, Pascone, Rv. 250646; Sez. 3, n. 40561 del 04/04/2012, Soldera, Rv. 253400) e proprio per questa ragione non possono essere condivise le conseguenze che il Tribunale trae dalla previsione della cd. “soglia di punibilità”. Il fatto che il legislatore ha inteso selezionare, ai fini penalistici, solo le condotte che pongono in pericolo la riscossione di imposte (ovvero sanzioni e interessi ad essi relativi) complessivamente superiori all’ammontare di 50.000,00 Euro, non autorizza l’interpretazione secondo la quale anche il valore del bene simulatamente alienato deve essere superiore a detto ammontare. È il dato testuale che priva di fondamento tale tesi: la possibilità che la procedura di riscossione possa essere anche “solo in parte” pregiudicata dalla condotta fraudolenta comporta necessariamente che il valore del bene possa essere inferiore al credito erariale agito, e poiché la “soglia di punibilità” riguarda il credito e non il bene, è arbitrario ritenere che il suo superamento costituisca predicato di entrambi. Il credito erariale, insomma, deve poter essere riscosso nella sua interezza. L’interpretazione fornita dal tribunale (che non pare avere precedenti nemmeno nella giurisprudenza di merito, certamente non in quella di legittimità) porterebbe alla creazione di un’inammissibile zona franca costituita dalla differenza tra l’importo complessivo del debito erariale e la “soglia di punibilità”, così che il contribuente sarebbe sostanzialmente legittimato a diminuire la garanzia del debito erariale (e dunque la sua possibilità di recupero per intero) con alienazioni simulate penalmente indifferenti se il valore dei beni sottratti è ogni volta inferiore a 50.000,00 Euro. Conseguenza ancora più assurda se, ipotizzando, un credito di imposta pari a 50.100,00 Euro, la sottrazione di beni di valore complessivo pari a 49.000,00 Euro sarebbe penalmente irrilevante benché idonea a pregiudicare la riscossione del credito nella sua interezza e certamente a pregiudicarla in parte.
5.3. Quel che conta, in ultima analisi, è che la condotta sia davvero idonea a frustrare il diritto di credito erariale e che dunque incida sul patrimonio del debitore in modo da ridurne in modo effettivo la consistenza, svuotandolo della funzione di garanzia cui esso assolve (sulla valutazione di sufficienza della consistenza del patrimonio del contribuente in rapporto alla pretesa dell’Erario, quale parametro al quale ancorare il giudizio di idoneità “ex ante” della condotta, cfr. Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2016, Pass, Rv. 266771; cfr. altresì Sez. 3, n. 6798 del 16/12/2015, dep. 2016, Arosio, Rv. 266771). Restando al caso di specie, è evidente che la sottrazione di beni per un valore oscillante tra 44.000,00 e 33.000,00 Euro è idonea a pregiudicare, anche solo in parte, la procedura di riscossione del maggior credito erariale superiore a 200.000,00 Euro. Quel che il Tribunale avrebbe dovuto indagare (restando sul piano della offensività) è se il patrimonio residuo del simulato alienante è capiente rispetto alla procedura esecutiva ed arrestare qui la sua indagine sulla concreta idoneità della condotta.
5.4. Deve perciò essere affermato il seguente principio di diritto: “In tema di reati tributari, il valore dei beni sottratti fraudolentemente al pagamento delle imposte può essere inferiore all’ammontare di 50.000,00 Euro previsto dall’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000 come elemento costitutivo del reato. L’offensività della condotta va parametrata esclusivamente in base alla sua attitudine a ridurre o eliminare la garanzia patrimoniale, secondo un giudizio ex ante”.
5.5. Ne consegue che l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Palermo per nuovo esame.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Palermo per nuovo esame.

Fonte: https://www.laleggepertutti.it/200243_fisco-quando-scatta-il-penale