La concessione abusiva del credito da parte di un istituto bancario nei confronti di un cliente insolvente rappresenta una problematica di recente acquisizione nello scenario giurisprudenziale italiano.

Il ritardo ermeneutico è stato in gran parte suffragato sia dall’assenza, fino al d.lgs. n. 385/1993, di una normativa esaustiva in relazione all’attività di impresa svolta dalle banche, sia dalla arcaica concezione del cliente quale parte del rapporto destinato a versare in una situazione di “debolezza permanente”.

Tuttavia, l’entrata in vigore del tub ha imposto all’autorità giudiziaria di valutare la compatibilità dell’attività creditizia posta in essere dalle banche con i principi sanciti all’interno del d.lgs. del 1993 posti a tutela del risparmio ex art. 47 Cost. e a tutela della concorrenza ex art. 41 Cost.

L’attività di impresa della banca (ex art. 10 tub) è infatti retta dai principi di correttezza e lealtà contrattuale, quali corollari immediati del più ampio principio di buona fede.

Invero, benchè si tratti di un principio sancito a livello generale agli artt. 1175, 1375 e 1366 c.c., il principio di buona fede è idoneo a integrare altresì le disposizioni normative particolari contenute all’interno del tub e di conseguenza a imporre alle banche condotte non abusive nell’esercizio dell’attività di impresa.

In particolare, in relazione all’attività di concessione del credito, il principio di buona fede impone alla banca di svolgere un’attività che non sia idonea a ledere né la posizione contrattuale del cliente, né la posizione di terzi, ovvero delle imprese concorrenti e dei creditori del cliente.

In virtù di tale assunto, a partire dalla sentenza n. 7030/2006 della Corte di Cassazione a sezioni unite, la giurisprudenza ha individuato gli estremi per valutare l’abusività di una concessione creditizia.

In particolare, richiamando i principi sanciti nel 2006 (ripresi dalla più recente giurisprudenza), la concessione del credito può ritenersi abusiva allorquando la banca o l’ente creditizio proceda a concedere un credito nei confronti di un cliente che versi in una instabile e precaria situazione finanziaria.

Non è necessario che il cliente versi già in uno stato di fallimento giacchè ciò che rileva ai fini della condotta abusiva è la sicura insolvenza della parte debole del rapporto.

Tale concessione, tuttavia, produce un danno economico di duplice natura, sia nei confronti del cliente che delle imprese concorrenti e dei creditori.

Nei confronti del cliente la concessione abusiva del credito rappresenta un inadempimento contrattuale che arreca un danno di natura economica rappresentato dall’espansione e dall’aggravamento della situazione debitoria. In termini probatori, l’azione di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. è retta dai principi sanciti all’art. 2697 c.c. secondo l’interpretazione offerta nel 2001 dalla Corte di Cassazione a sezioni unite.

Nei confronti delle imprese concorrenti e dei creditori, la concessione abusiva crea l’affidamento circa la favorevole situazione finanziaria del cliente occultando il reale stato di insolvenza.

In tal caso, l’attività della banca è perfettamente qualificabile come un illecito civile, previo accertamento degli elementi costitutivi imposti dalla legge.

La giurisprudenza pertanto riconosce ai soggetti lesi il diritto di esperire l’azione di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. per violazione del principio del neminem laedere.

A tal fine, in relazione al regime probatorio, la parte lesa è obbligata a provare non solo il nesso di causalità tra il danno patrimoniale verificatosi e la concessione abusiva della banca ma, altresì, la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa o del dolo.

L’elemento del dolo in particolare è accertato al momento dell’erogazione del credito allorquando sia fornita la prova della piena consapevolezza, a opera della banca, dello stato di insolvenza del cliente.

Diversamente, l’elemento della colpa ricorre allorquando la banca non abbia raccolto esaurientemente le informazioni necessarie circa lo stato economico – finanziario del cliente, o non abbia accuratamente valutato le conseguenze della concessione creditizia sulla sua situazione debitoria.

In particolare, la giurisprudenza ha escluso la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito nel caso in cui la banca abbia dimostrato che l’ erogazione del finanziamento fosse stata effettuata nel perseguimento di concrete prospettive di risanamento dell’ impresa finanziata, eventualmente attestate in apposito piano, con conseguente vantaggio per tutti i creditori.

Sul tema si segnala:

Contratti di finanziamento bancario, di investimento, assicurativi e derivati, Gianni Origoni Grippo Cappelli & Partners A cura di Acciari Luciano, Bragantini Matteo, Braghini Davide, Chiarenza Fabio, Grippo Emanuele, Iemma Paolo, Zaccagnini Marco, IPSOA, 2016.

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Fonte: Altalex.com. Articolo di Rita Claudia Calderini